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Andrea Cortellessa
«La vicenda del poemetto, cioè la moderna educazione sentimentale, cioè come si impara o non si impara a crescere, ce l’avevo già tutta o quasi: avevo scritto nel ’47-48, cioè proprio nel tempo del racconto della Ragazza Carla, quando ero impiegato come traduttore dall’inglese e dattilografo in una Società milanese di import-export, una cartella e mezzo per un eventuale soggetto cinematografico da proporre, possibilmente, alla coppia De Sica-Zavattini. Un’idea velleitaria di un ventenne. Il soggetto non venne recapitato a nessuno e me lo ritrovai per caso in una qualche cartella, alcuni anni dopo, quando già pensavo alla necessità di ridurre nei miei componimenti l’invadenza del mio io».
Così raccontava Pagliarani, in una Cronistoria tarda, la genesi del suo capolavoro, La ragazza Carla, destinato a uscire poi solo nel 1960 (prima sul «Menabò» di Vittorini e Calvino, poi nella collana minor di Mondadori, il «Tornasole» diretto da Vittorio Sereni). Ed era lecito, conoscendo i narcisismi retrodatanti di tanti artisti e poeti (nonché, nella fattispecie, la competizione aspra di Elio con Majorino e la sua Capitale del Nord), considerare questa sua ricostruzione niente più che una mise en scène mitobiografica. Invece qualche anno fa Luigi Ballerini (nel suo volume 4 per Pagliarani, Piacenza, Scritture, 2008), scartabellando l’archivio riminese, ha potuto comprovare la genuinità del referto: in un’agenda del ’48 si trovano davvero i primi, per quanto remoti, abbozzi del poemetto.
Quello del cinema è poi, nel poema, un repertorio di cultura popolare che appartiene alla quotidianità delle «domeniche a spasso con Aldo Lavagnino» di «Carla Dondi fu Ambrogio di anni / diciassette primo impiego stenodattilo / all’ombra del Duomo». Nella primissima inquadratura del racconto, dopo l’attacco «spaziale» che chiama a protagonista la città («Di là dal ponte della ferrovia / una trasversa di viale Ripamonti»), ci viene detto che «i film Carla non li può soffrire», perché «un film di Jean Gabin può dire il vero»: farci specchiare il «cuore sorpreso, spaventato / il cuore impreparato», cioè, in un «fischio e nebbia o il disperato / stridere di ferrame» (è anche uno schermo, insomma, «questo cielo d’acciaio che non finge / Eden e non concede smarrimenti», poco più avanti all’apice del poema: «è nostro ed è morale il cielo / che non promette scampo dalla terra, / proprio perché sulla terra non c’è / scampo da noi nella vita»). Ed è di nuovo al cine, nel terzo «canto» del poema, che la Carla si rifugia terrorizzata dalle mani ragnesche di Pratek, il boss della Transocean Limited: ma solo, una volta di più, per vedere rispecchiato sullo schermo il suo turbamento sessuale («Sagome dietro la tenda / Marlene con bocchino sottile / le sete i profumi i serpenti»).
M’è venuto da dire «inquadratura», poco fa; ed è infatti cinematografica, assolutamente, la sintassi narrativa del poema: in un ritmo compositivo costruito per montaggi spezzati e analogici, o piuttosto allegorici (poetici, comunque), piani lunghi alternati a fulminanti raccourcis. Aveva o no prescritto il vecchio Pound di Hugh Selwyn Mauberley, per i poeti del Novecento, «a prose kinema»? Con sprezzo del pericolo il giovane Elio, appassionato di «pietà oggettiva» neorealista, aveva raccolto la sfida che «the age demanded» (piuttosto diverso sarà, più avanti, il montaggio all’opera nel secondo «romanzo in versi» concepito negli anni Sessanta e licenziato solo dopo un trentennio, La ballata di Rudi).
Sicché era inevitabile pensare, per questo che l’autore chiamava (ed è a tutti gli effetti) «romanzo», a una trasposizione cinematografica. Inevitabile ma anche, nelle premesse, impossibile. Perché il romanzo di Elio è un romanzo in versi, e più precisamente un romanzo poetico: nel quale la sostanza delle parole, insomma, è più dura e inscalfibile di quel cielo d’acciaio. Alberto Saibene, che è pure lui un tipo dal temperamento ardimentoso, ha raccolto la sfida a sua volta. Ha costruito il suo film come un doppio nastro alternato: alla Milano d’antan – evocata da frammenti forniti dall’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico (per lo più risalenti però agli anni Sessanta, invece che ai Cinquanta della narrazione) – si giustappone quella di oggi, splendidamente ripresa da Luca Bigazzi. I volti delle ragazze Carla di oggi, tutte sciarpe e piercing e sguardi sperduti nello smartphone, in questa luce di nitore metallico, sono capaci di commuovere con non minore oggettività dei versi che risuonano lungo tutto il film, scanditi con la consueta partecipazione dall’interprete storica del poema, un’altra Carla: Carla Chiarelli cioè, che da quindici anni instancabile gira i teatri d’Italia colle parole di Elio. A fornire uno straniamento imprevedibile, e quanto mai opportuno, i siparietti affidati a Elio, un altro Elio: quello delle Storie Tese cioè, che impersona in modo trascinante un cinico docente di vita che a quelle stesse ragazze, che si rivolgono a lui sul web coi turbamenti delle Carla di oggi appunto, risponde in modo paradossale e strafottente (i testi, ottimi, sono di Renato Gabrielli): «Colpisci, vita ferro città pedagogia / I Germani di Tacito nel fiume / li buttano nel fiume appena nati / la gente che s’incontra alle serali». A «inquadrare» gli interni di casa Dondi e della Transocean Limited, infine, i disegni dell’affermata fumettista Gabriella Giandelli (un po’ più anodini – tranne l’ultimo, di grande emozione, che solo alla fine del racconto inquadra il volto della «vera» Carla, rimasta sola davanti allo specchio come Buster Keaton nel Film di Beckett).
La scena più bella del film è quella che inquadra dall’esterno i vetri illuminati di un grande palazzo di uffici. I versi sono quelli decisivi del poema, in cui lo sguardo esterno del narratore si mostra – anche al di là delle proprie intenzioni, forse, coinvolto nel meccanismo stritolante dello sfruttamento capitalistico quanto nelle spire emotive del racconto: «Sono momenti belli: c’è silenzio / e il ritmo d’un polmone, se guardi dai cristalli / quella gente che marcia al suo lavoro / diritta interessata necessaria / che ha tanto fiato caldo nella bocca / quando dice buongiorno / è questa che decide / e son dei loro / non c’è altro da dire». Per una volta l’inquadratura è notturna, e per una volta a colori; mai come qui la bella musica di Pietro Dossena accarezza la visione. E allora per la prima volta viene da pensare a tutto il racconto di Elio come incorniciato dal suo esergo (che riporta un aneddoto raccontato a Pagliarani da Elvio Fachinelli): «Un amico psichiatra mi riferisce di una giovane impiegata tanto poco allenata alle domeniche cittadine che, spesso, il sabato, si prende un sonnifero, opportunamente dosato, che la faccia dormire fino al lunedì. Ha un senso dedicare a quella ragazza questa “Ragazza Carla”?». Tutto il racconto può essere considerato un sogno, insomma: un sogno fatto si capisce, secondo l’antico precetto, «in presenza della ragione». E dove se non al cinema, appunto, si può sognare in presenza della ragione? Davvero – sono momenti belli.
Testo pubblicato su www.alfabeta2.it il 5 maggio 2016, su La ragazza Carla. Dal poema omonimo di Elio Pagliarani, un film di Alberto Saibene con Carla Chiarelli (Italia 2015)
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