Ha dell’incredibile la condizione in cui versa la cultura e lo spettacolo in Sicilia. Il cronico commissariamento dell’Inda a Siracusa (nonostante i suoi incassi da capogiro), il lento inesorabile declino dello Stabile di Catania, oggi commissariato, lo stato di incertezza in cui è sprofondato il Teatro Biondo di Palermo che oggi si ritrova senza neppure il direttore. Roberto Alajmo ha dato le dimissioni dopo aver svolto un lavoro encomiabile sia sul piano culturale sia su quello gestionale, aumentando pubblico e ricavi mantenendo alta la qualità e perseguendo con coraggio il rischio artistico cui non deve mai rinunciare un teatro pubblico. Ha dell’incredibile che a oggi non si sia ancora riunito un tavolo comune fra Regione, città di Palermo, Ministero della Cultura, consiglio di amministrazione del teatro, per trovare insieme una soluzione. Che è questione primariamente di fondi, di economie. Meraviglia che il sindaco Leoluca Orlando – promotore di quella Primavera di Palermo, venticinque anni fa, che proprio della cultura faceva motore e volano: dai Cantieri alla Zisa riconvertiti alle arti al Festival sul Novecento, ai festini di Santa Rosalia firmati da artisti di grido, agli Shakespeare di Carlo Cecchi al Teatro Garibaldi – non abbia individuato un percorso che garantisca il futuro al teatro. Palermo deve tornare a essere una delle città più vivaci del Paese, e invece oggi, seppure il Massimo stia vivendo una felice stagione, la cultura, le arti, i saperi non paiono più abitare questa città meravigliosa e un po’ dannata. La sola idea che la prossima stagione del Biondo possa non partire produce sconcerto: stiamo parlando di uno dei Teatri più importanti d’Italia, di una delle città che proprio nella cultura deve continuare con determinazione a investire. Senza cultura, arte, teatro, musica, Palermo si spegnerebbe ulteriormente, il declino antropologico e sociale della città non avrebbe più argini, la città collasserebbe, e i suoi quartieri tornerebbero completamente in mano alla malavita e al malaffare. Il teatro è arte sociale per eccellenza, arte della partecipazione, dell’inclusione e dell’integrazione. E’ motore della coesione sociale e sui palcoscenici comprendiamo meglio cosa ci accade nella vita di tutti i giorni, attraverso un copione classico o grazie a una drammaturgia di oggi. Ecco perché è così prezioso alle comnità degli uomini e alle città, perché ne rappresenta una sorta di parlamento sociale, lontano dalla politica. Ma della buona politica il teatro ha bisogno, al pari degli altri servizi pubblici, per dirla con Paolo Grassi, che insieme a Giorgio Strehler fondò il Piccolo Teatro di Milano, primo teatro pubblio italiano. Si trovino, dunque, i contributi straordinari che servono anche a contenere gli interessi bancari (ormai una voce significativa dei bilanci dei nostri teatri), si metta mano ancora all’organizzazione del lavoro, alzandone la produttività, con i sindacati una volta tanto dialettici e costruttivi. I tempi sono cambiati per tutti e tutti dobbiamo mutare prospettiva, pensando al bene complessivo di una istituzione preziosa come il Biondo. L’indiferenza, la non-azione, la passività sarebbero una colpa grave e produrebbero un danno all’intero teatro italiano. Perché, non lo si dimentichi, oltre a produrre i propri spettacoli, il Biondo ne accoglie di altri in arrivo da tutta Italia. E il Teatro Argentina di Roma non vuole perdere per nessuna ragione tanto l’Odissea di Emma Dante, tanto il Minetti interpretato da Herlitzka, diretto da Andò, che abbiamo messo in cartellone. “Non andare a teatro è come far toeletta senza uno specchio”, ha annotato il filosofo Schopenhauer. Non offrire questo specchio necessario a un’intera città è un delitto.
Antonio Calbi
Direttore del Teatro di Roma Teatro Nazionale